Mongolia: Eej Khad, la Roccia Madre

Il Sacro Recinto di Eej Khad
20 Febbraio 2007
1206 – 2006: Genghis Khan
11 Marzo 2007

Mongolia: Eej Khad, la Roccia Madre

L’intensa e ieratica esperienza intrisa di allegorismi uranici, descritta nel nostro articolo sull’ascensione alla Montagna Sacra o Bogd Uul, in Mongolia, nel luglio 2006, in occasione del primo corso di massaggio thailandese in quest’immenso paese, non è stata ovviamente l’unica condivisa dal gruppo. Così anche qui nel descrivere quest’altra memorabile giornata connessa ad un simbolismo opposto seppur complementare: la visita alla Roccia Madre o Eej Khad, non posso esimermi dal raffrontarla con il testo cosmogonico scolpito nelle plurimillenarie steli della cosiddetta “Genesi dell’Orkhon”, magistralmente commentato nel libro di J.P.Roux sulla religione dei Turchi e dei Mongoli.

Eej Khad

La Roccia Madre

Eej Khad – Töv Aimag – Mongolia

di Ermanno Visintainer

“Quando l’azzurro Cielo (Tängri) in alto e la grigia Terra (Yer) in basso furono creati, fra i due fu creato il genere umano (…)”, dice il testo, ed ancora altrove: “Perché il Cielo in alto e la Terra in basso lo hanno ordinato”. J.P.Roux, nel suo libro, glossa il testo così: “La Terra formata contemporaneamente al Cielo, nel testo, è la zona cosmica inferiore, asra, come il Cielo è azzurro, kök, essa è bruna, cupa, yagïz. Nella misura in cui asra si oppone a üze, “alto”, “elevato”, Yersi oppone a Tängri e così yagïz a kök. Se ne può concludere che la Terra è complementare al Cielo e, naturalmente, molto più vicina agli uomini”. Quindi il Cielo, maschio, ha il suo complemento nella Terra, femmina.

Nella Storia Segreta dei Mongoli questa coppia è presentata in piena eguaglianza: “Ricevendo dal Cielo e dalla terra una forza accresciuta, designati dal Cielo onnipotente e portati alla meta dalla Terra-madre (…)”[1]. Non sviscereremo certo in questa sede, tutto il simbolismo associato con le qualità cosmiche, di cui, soprattutto per quanto riguarda quella femminile, abbiamo trattato esaustivamente nel nostro articolo sul Massaggio sciamanico tuvino, tuttavia qualcosa da integrare di certo non manca.  Il concetto di Yer, peraltro, nel testo spesso allegato a quello di Sub, in un’endiade: Yer-sub (terraqueo), viene qualificato con l’aggettivo ïduq, in tuvino moderno ïdïq, tradotto spesso con “sacro” ma più propriamente significante “lasciato libero” in quanto sede di ierofania numinosa (verosimilmente il termine stesso ïdïq deriva da idi ïdï, peraltro attestato in antico turco, nel suo assetto vocalico posteriore), ovvero un insieme di luoghi dove, quasi lambendo una certa sensibilità ecologica moderna è proibito cacciare, pescare, tagliare alberi, etc., in quanto i terreni sono abitati dagli ezen o idi, gli spiriti padroni-possessori.

Questa volta apprendiamo notizia del luogo che intendiamo visitare leggendo il libro di Roberto Ive che ci accompagna durante il viaggio, in cui egli descrive il suo “pellegrinaggio”, perché poi di questo si tratta, in questo luogo “sacro”: “Da tempo immemorabile – scrive Ive -, Eech Had è un’irresistibile calamita per la gente della capitale. E’ da sempre, il luogo in cui si va a rendere omaggio allo spirito della terra, invocando la sua protezione e la sua fertilità” [2].

La Roccia Madre o Eej Khad è tuttavia oggigiorno anche una meta di visita per i poteri curativi attribuitile. Tuttavia nel clima di caccia alle streghe instauratosi durante gli anni più bui del passato periodo comunista, la visita alla roccia era considerata un reato politico e nel tentativo di estirpare qualsivoglia manifestazione religiosa o ispirata alla devozione popolare, si era cercato di distruggere con dell’esplosivo questa “Roccia” ritenuta reazionaria, ma invano, tant’è che alcuni artefici di tale progetto scomparvero improvvisamente e misteriosamente o furono colpiti da sventure.

Mongolia – Ulaan Baatar – Mercato Naran

Partiamo quindi di buon ora dal nostro appartamento ad Ulaan Baatar con l’auto di mio cognato, la distanza non è eccessiva, circa 90 km a sud della città, ma come sempre accade in Mongolia, quello che in Europa può sembrare un dettaglio trascurabile, ovvero un così esiguo spostamento, a quelle latitudini può trasformarsi in un problema abbastanza consistente. Lasciamo la città, costeggiando il rilievo montuoso situato a sud della capitale e ci dirigiamo verso la cittadina di Zuunmod.  Per una quarantina di chilometri il percorso è anche ameno, si attraversa una sorta di valle in cui si scorgono armenti e accampamenti di ger. Quindi si giunge ad un passo dove c’è un grande Ovoo[3] attorno al quale si devono tassativamente eseguire i tre giri apotropaici di rito, con copiose aspersioni di vodka sulle pietre.

Arrivati a Zuunmod ci si pone un altro particolare anch’esso del tutto inusuale in Europa, ma la strada conducente alla Roccia Madredov’è? Dove inizia? Ovviamente non ci sono indicazioni e bisogna quindi aspettare qualcuno cui chiedere. A questo punto ci si presenta innanzi uno scenario alquanto inquietante: una lunga retta avente l’aspetto di una strada, mezza sterrata e mezza asfaltata, ma con buche così profonde da demotivare chiunque ad avventurarvisi sopra. In quel frangente mi viene da pensare – meno male che l’anno scorso il premier turco Erdoğan, in occasione di una visita in questo paese dei suoi avi, aveva stanziato cinque milioni di dollari per la costruzione di strade, altrimenti che faremmo? – mentre, quasi subito mio cognato, con una manovra improvvisa, esce di strada e inizia a percorrere una delle decine di polverose piste che s’inoltrano nella steppa appena evidenti tra l’erba ed i cespugli.

Qui avviene un ulteriore ribaltamento di prospettive: non c’è più un’unica strada, un’unica via bensì molte, spesso apparentemente opposte, e contrastanti che conducono tutte nella medesima direzione, oppure no; ma alla fine dei conti cosa importa? In un tale contesto viene anche a mancare lo stress, l’ansia del conseguimento di un traguardo preciso. E qui il primo accostamento che mi viene spontaneo di fare è quello inerente all’accezione spirituale di “via”, come ricorda un noto adagio sufi ma non solo.

Un altro raffronto, sempre sulla falsariga di certi accostamenti che nella nostra mente scaturiscono dai pensieri associativi, è quello che Asokananda ci fece in occasione di un seminario riguardo all’aporìa esistente, sollevata da alcuni, circa la differenza tra i vari stili orientali di massaggio. “Per capire la differenza tra il massaggio thailandese ed altri analoghi stili – disse – si potrebbe fissare lo sguardo su una carta geografica di un paese. Ipotizziamo – continuò – che uno stile come lo shiatsu, – in mera virtù della sua notorietà – rappresenti i percorsi principali di questo paese, come le autostrade. Ebbene il massaggio thailandese rappresenterà dei percorsi secondari, alternativi, magari più lenti, di certo meno artificiosi, ma per questo non meno validi, ovvero conducenti alla stessa mèta: quella del ripristino dell’equilibrio energetico”.

Un po’alla volta però, quest’assorbimento in pensieri legati all’attività svolta in Mongolia, viene ad essere assimilato dal paesaggio esterno, caratterizzato da uno scenario di spazi immensi solcati da piste e incoronati da colli, monti, passi da valicare ed Ovoo cui officiare circumambulazioni rituali, in cui di tanto in tanto, si scorge una nube polverosa che è indice della presenza di un mezzo. Ad un certo punto ci fermiamo in prossimità di una ger di nomadi per chiedere informazioni sulla strada. Fa un po’specie notare dei pannelli solari posti sul tetto della ger, questa commistione così estemporanea di tradizione e tecnologia. Quindi risaliamo in macchina e proseguiamo, ad un certo punto scorgiamo a distanza una sorta di cinta muraria, un edificio sacro, per la precisione l’eremo di Dašpeljeelin, cui ci appropinquiamo per chiedere altre informazioni; ma qui il silenzio, il vuoto quasi noetico ed imperioso creato da quest’ambiente così peculiare, evoca in me delle sensazioni molto particolari.

È qualcosa che mi rammenta letture fatte in passato, nella fattispecie quelle dell’esoterista René Guénon e del suo saggio: “Il Re del Mondo”, ispirato al racconto del viaggiatore Ferdinand Ossendowski, “Bestie, Uomini e Dei”, che renderà fama imperitura a tale leggenda[4], ed il cui tema, poi ripreso nell’omonima celebre canzone di Battiato, afferma l’esistenza celata di un regno sotterraneo, detto Agarttha, situato nelle viscere della Mongolia. “Hai veduto – mi chiese la guida – come i cammelli muovono le orecchie, impauriti? E quel branco di cavalli nella pianura che è rimasto immobile e attento? E le greggi, e le mandrie accasciate a terra? E gli uccelli che non volano, e i cani che hanno cessato di abbaiare? Così accade sempre quando il Re del Mondo, nel suo palazzo sotto terra, prega e scruta i destini di tutti i popoli e tutte le razze”. La scena – descritta da Ossendowski nel citato libro, si svolge in Mongolia; il palazzo dove prega il Re del Mondo si trova nel Regno di Sotterra. Questo regno che, secondo la leggenda, si estende sotto gran parte dell’Asia, collegato a tutti i luoghi della Terra tramite una fitta rete di passaggi sotterranei, è un territorio immenso celato alla vista degli uomini e popolato da esseri semidivini. Esistente fin dalla notte dei tempi e prosperato alla luce del sole, durante l’”Età dell’Oro”, con l’epiteto di “Paradeša[5]; essendosi trasferiti i suoi abitanti, all’inizio del Kalī Yuga –कली युग della tradizione indù[6], nel sottosuolo per evitare di essere contaminati dal male, convertì il proprio nome in Agharti o Agarthha, “l’inaccessibile”.

Ritornando al nostro viaggio, accediamo al tempio dove ci riceve un abate anziano con una fluente barba e dall’aspetto veramente ieratico, ci accoglie e ci fa da guida. Si tratta di un eremo tantrico Kālacakra कालचक, che rammenta quelli citati dall’esploratore Sven Hedin[7] nelle sue peregrinazioni, alla ricerca dell’Agarthha nello Xinjiang, o quelli visitati dal nostro grande orientalista Giuseppe Tucci, che, a quante pare, situò il regno nella regione attraversata dal fiume Tarim.

L’eremo è una costruzione strutturalmente modesta, quanto imponente dal punto di vista dell’impatto emotivo. Il suo interno è come un caleidoscopio dalle tinte forti e contrastanti: gialle, rosse, blu, verdi, bianche e zafferano, elementi cromatici caratteristici del buddhismo tibetano, nonché saturo d’addobbi e paramenti sacri, effigi e reliquie. Poi l’abate, indossati i paramenti s’avvicina con una specie di scettro, una verga avvolta in khadag[8] azzurri e la pone, con un gesto di benedizione, sulla fronte di ciascuno di noi. Mi sento letteralmente cedere le gambe e contemporaneamente pervadere da una sorta di leggerezza e di serenità che mi attraversa. Quindi, prima di prendere commiato, ci dà delle indicazioni per proseguire.

Lasciamo il monastero e riprendiamo la marcia verso la Roccia Madre e cominciamo ad affiancare dei rilievi rocciosi, molto erosi dagli agenti atmosferici, quasi ad evidenziarne l’arcaicità, quindi dopo un po’scendiamo verso una depressione. In lontananza notiamo una roccia piuttosto grande ed avvolta in khadag, per un istante pensiamo di essere giunti a destinazione, ma presto ci rendiamo conto che quella non è la nostra meta, bensì solo la sua prefigurazione.

Avanziamo ancora lentamente onde non rovinare il fondo dell’automobile, già duramente provato dal viaggio, allorché dietro una collinetta improvvisamente ci appare il luogo.  – Questo è veramente l’accesso all’Agarthha – penso tra me emozionato. In realtà la roccia non è immediatamente visibile, bensì è come occultata, “velata da sguardi indiscreti”, ovvero da una cinta muraria circolare. Ovviamente il luogo è ïduq, ovvero è sacro nell’accezione innanzi esposta, e lei stessa, cioè la Roccia ne è l’Ezen, poiché gli ezen possono essere anche femminili[9] Il silenzio, l’immobilità sovrastante della natura rende il luogo veramente saturo di un alcunché di numinoso, si notano persone dedite a questo culto litolatrico[10], che eseguono delle circumambulazioni rituali attorno alla cinta, aspergendo vodka, latte etc., ma a dire il vero nelle sue modalità tale immagine, più che quella commistione sincretistica fra sciamanismo e buddhismo tibetano, così eterodossa e peculiare di questa terra, evoca in me quasi in maggior misura, reminiscenze dei luoghi consacrati alla fede islamica, come il mausoleo di Haji Bektaš in Cappadocia, oppure le tombe dei Marabutti che si trovano disseminate qua e là viaggiando nel Sahara [11].

Qui le sensazioni precedentemente provate presso il tempio, s’intensificano. Dentro di me, intimamente, sento di essere approdato ad una sorta di capolinea di innumerevoli letture, interiorizzate nel corso degli anni.  In realtà non abbiamo ancora un’idea precisa di quello che ci aspetta, sebbene ci siamo ormai resi conto che il termine “roccia” stia ad indicare qualcosa dalle proporzioni alquanto ridotte.

Ci avviciniamo alla cinta sacra e sbirciando dall’ingresso verso l’interno della struttura ai nostri occhi appare un monolito epigeo, vagamente antropomorfo, dell’altezza di circa un paio di metri, avente fattezze inequivocabilmente muliebri, avvolto, ovvero quasi “velato”[12] in drappi sacri, come alcune statue del Buddha ed in posizione semieretta o assisa su una sporgenza conica che ricorda la Dea dell’omphalos del tempio di Apollo[13]. La roccia, infatti, possiede due procidenze laterali molto stilizzate simili alla postura di certe veneri post-paleolitiche o di certe dee cretesi e cananee ofiofore.

Il luogo effonde nell’aria un’intensa fragranza di Artz, l’incenso ottenuto dalla polvere del ginepro siberiano e latte, mentre all’interno della cinta le persone svolgono ordinatamente le loro circumambulazioni rituali e non sembrano essere troppo disturbate dalla nostra presenza, presumibilmente inconsueta. Da quest’estemporaneo parallelismo: fra un santuario mariano ex voto con i citati oracoli paleoellenici, traspare, in effetti, un’atmosfera veramente singolare e magica che allude ancora alla leggenda del Re del Mondo. Alcuni devoti stabiliscono un contatto con il blocco litico e, con le mani raccolte, sussurrano insufflando qualcosa verso il suo interno quasi per udirne lì o più avanti un responso od un vaticinio. Anche noi quindi ci apprestiamo ad eseguire tali riti con le offerte portate appresso, fra cui un set di khadag azzurri acquistati ad hoc al mercato Naran Tuul di Ulaan Baatar, assistiti dal cognato per quelle operazioni in cui non siamo troppo avvezzi.

Appropinquatomi ulteriormente all’effigie ginecomorfa, nella consapevolezza del suo simbolismo ctonio, nonché di tutte quelle implicazioni sviscerate in riferimento ad un lignaggio femminile di trasmissione di una saggezza legata alla pratica delle tecniche di guarigione, espressenell’articolo sul massaggio sciamanico[14], riconosco altresì in essa istintivamente qualcosa che – scusandomi con il lettore per l’adiabatica autoreferenzialità con cui mi accingo ad esprimere questo stato d’animo – genera in me una profonda emozione. L’enigmatico e petroglifico volto della figura, pur così sommariamente abbozzato nella dura roccia con quei suoi tratti essenziali e con la sua espressione me ne rammenta uno scolpito indelebilmente negli anfratti della mia memoria[15]; mentre, la sua postura statuaria evoca altresì i lineamenti di certi eren od ongon[16], questi feticci omologhi ai lari ed ai penati[17] della tradizione etrusco-romana.

E così da questa sorta di gorgo procelloso d’immagini e d’emozioni che irrompono nella mia mente, amalgamandosi e sovrapponendosi ad altre, riverberano, come attraverso un prisma dai molteplici riflessi, reminiscenze di luoghi, volti e situazioni.

Così sorge in me spontaneo, in quel frangente, un raffronto con la precedente summenzionata giornata, altrove descritta, con cui riscontro una forte complementarietà e mi sembra di riconoscere, altresì nell’Eej Khad, quella divinità paredra di Tänger, o Tängri delle epigrafi orkhonidi, ovvero un santuario primigenio dedicato al culto di Yer Yer-sub, la Terra-madre degli antichi Turchi e l’Edügen o Gazar Eej dei Mongoli. Conscio dell’audacia di tale asserzione, prescindendo dalle “anfibologie del caso”, preciso che affermo ciò in quello stile sincretistico, intriso di elementi storici, suggestioni leggendarie e di riflessioni filologiche, da me scelto per la stesura dell’articolo. Non intendo assolutizzare tali affermazioni. Certo è che in Mongolia le stratificazioni sono molteplici e perciò non ritengo essere la cosa del tutto peregrina. La Mongolia è stata, del resto, terra d’etnogenesi di varie popolazioni: prima gli Unni o Hsiung nu (匈奴 circa III sec. a.C.), quindi gli Àvari o Juan Juan, poi i Turchi Celesti o Kök Türkleri, verso il 500 d.C.; ed infine i Mongoli di Genghis Khan. Peraltro, in senso più esteso, ovvero includendo l’area di diffusione della cultura mongola, anche terra d’etnogenesi di culture indoeuropee (Andronovo, Tagar)[18], nonché di popolazioni paleosiberiane come la ket, una delle più enigmatiche dell’Asia, che pare essere linguisticamente affine ai Burusho o Hunza del Pakistan settentrionale, mentre recenti studi sierologici sul DNA l’hanno posta in relazione con le popolazioni del Sud-est asiatico[19].

Già abbiamo fatto riferimento agli scritti di René Guénon e di Ferdinand Ossendowski. Leggende antichissime insistono sul fatto che l’umanità sia nata in Mongolia e che qui, nascosto in una dimensione inaccessibile ai profani, si celi il mistico Re del Mondo. Non tralasciamo, comunque, di ricordare, onde evitare di dare un taglio eccessivamente esoterico al nostro scritto, l’attrazione che, tale mito, legato peraltro alle remote origini dei Turchi in Mongolia, ammiccato dallo stesso premier turco Tayyıp Erdoğan in occasione della sua recente visita, l’anno scorso, in questo paese, ha esercitato sull’intera storiografia turca, fra i cui esponenti di spicco annoveriamo il laicissimo Kemal Atatürk[20], fondatore della moderna Turchia, unitamente al suo teorizzatore ed ideologo Ziya Gökalp[21].

Alla fine di tutte queste riflessioni usciamo dal recinto sacro e, nelle prossimità, all’ombra di un gazebo, mentre consumiamo un frugale pasto, osserviamo i pellegrini che accedono numerosi al sito sacro a bordo dei loro mezzi provenienti dalla capitale. Quindi risaliamo in macchina e ci rimettiamo in viaggio, sulla strada dissestata e polverosa alla volta di Ulaan Baatar.

Anche questa volta, mentre ci allontaniamo dal sito, colmi di soddisfazione per la giornata tanto densa di eventi straordinari, siamo accompagnati da un lieve senso di malinconia dovuto alla nostalgia, che la separazione da tale luogo già suscita in noi.

Lascia un commento