di
Ermanno Visintainer
Articolo pubblicato sulla rivista Polaris di gennaio 2011
Un evento sul quale, quest’anno, sono stati puntati i riflettori dei media riguarda un Paese noto per essere una mèta prediletta del turismo internazionale, ovvero la Thailandia, sconvolto dalla protesta organizzata dalle “camicie rosse” del Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura (UDD) –sostenitori dell’ex primo Ministro Taksim Shinawatra – nei confronti del Partito Democratico filomonarchico, guidato dal Premier Abhisit Vejjajiva.
A prescindere dal fatto in sé, i cui risvolti sono abbastanza noti, oltremodo avvincente è piuttosto la cornice in cui si sono svolte le manifestazioni tenute dal magma in divisa garibaldina. Infatti, la marcia si è concentrata attorno a Ratchadamnoen Avenue, nel quartiere di Banglamphu, nome dal suono esotico che, all’orecchio dei più non evoca alcunché di preciso. Ma a chi, durante quei fatti anche cruenti, si trovava nella Città degli angeli – o Krung Thep, come i thailandesi chiamano Bangkok – e sollevando lo sguardo dal terreno riusciva per un attimo a distaccarsi da ciò che, da quelle parti, denominano il mondo samsarico o fenomenico, non poteva sfuggire quell’inconfondibile tratto plastico-architettonico che caratterizzava la prospettiva dei palazzi adiacenti, così simile agli scorci di molte città situate sull’italico suolo.
Nel viale in questione, infatti, l’occhio avvezzo non poteva fare a meno di cadere sullo stile razionalista italiano voluto da Re Rama V (1853-1910) che fa da cornice al Monumento alla Democrazia, costruito per commemorare il passaggio della nazione, nel 1932, da monarchia assoluta a costituzionale, ideato da Corrado Feroci (1892 – 1962), ivi conosciuto come Silpa Bhirasri, artéfice dell’arte moderna thailandese.
Uno stile che, Ruggero Da Ronch, esperto dell’architettura di quel periodo storico, ha commentato così: Un chiaro stile razionale italiano con alcune influenze europee del periodo, ed alcuni accenti – direi – futuristi. Sono architetture di notevole valore plastico e di buon controllo compositivo dei volumi e anche – mi pare – dei prospetti.
Belle proporzioni urbane ben misurate. Veramente un’ottima qualità architettonica. Immagino che anche le piante siano progettate bene. Un bravo architetto da riscoprire. Il segno di un’architettura italiana, costruita in Oriente, che porta il valore di un periodo architettonico dove qualità e stile hanno trovato un’unità mai più raggiunta in seguito.
Peraltro, gli esempi di arte ispirantisi all’Italia non si fermano qui, ma questo esula dal nostro articolo. Piuttosto la domanda che sorge spontanea è: per quale motivo proprio in Thailandia si trova un esempio d’architettura razionalista?
Una replica a tale quesito è che la Thailandia, schiacciata dall’espansionismo coloniale anglofrancese – analogamente alla Turchia ed al Giappone – fu una delle poche nazioni asiatiche che seppero metabolizzare il loro accesso alla modernità, conservando la propria identità. O, per meglio dire, un Paese in cui il dibattito culturale interno, protrattosi per almeno un secolo prima della realizzazione di quell’opera urbanistica, orientandosi verso movimenti d’avanguardia che, in quel preciso momento storico, avevano un impatto simbolicamente dirompente rispetto a concetti quali avvenire e tradizione, optò intenzionalmente per le forme del razionalismo italiano.
Un movimento questo che cercava una soluzione alla questione del rapporto tra individuo e società moderna, in cui l’opera architettonica doveva essere funzionale, avere cioè un rapporto razionale con le tecniche della produzione industriale e con le esigenze della società moderna.
In Italia il razionalismo convergeva nel futurismo nel tentativo di conciliare la modernità dell’era delle macchine con la tradizione. In sostanza di reinterpretare la tradizione con nuove forme, aderenti alla logica e alla razionalità, senza la vuota ripetizione degli stili del passato e con l’uso di nuovi materiali costruttivi.
In sintesi estrema, lo scenario storico attraverso cui la Thailandia mutuò questi concetti, trova in Re Rama IV (1804 – 1868) uno degli antesignani della modernizzazione del paese. Egli intraprese la via di un avvicinamento con l’Occidente al fine di preservarne l’indipendenza politica, culturale e spirituale. A tale scopo egli impose una modifica dello stile di vita, negli abiti, nell’architettura, favorendo lo studio della lingua inglese e l’acquisizione della tecnologia occidentale.
Più recenti sono le figure del feldmaresciallo Phibul Songkhram (1887-1964), Primo Ministro della Thailandia dal 1938 al 1944 e dal 1948 al 1957 e quella dell’ideologo Luang Wichit Wathakarn (1898-1962), Ministro della propaganda. Entrambi assertori di un forte sentimento nazionalista (ลัทธิชชาต – latthi chu chat) permeato di simpatie filo-Asse italo-tedesco e filo-kemaliste, nonché di una riveduta identità thailandese (เอกลักษณ์ไทย – Ekalak thai), per lo più, di ispirazione giapponese, emulativa del concetto di wakonyosai, spirito giapponese e tecnologia occidentale (cfr. Craig J. Reynolds, National Identity and its defenders, Chiang Mai 1993).
Il primo fu artéfice, nel 1939, del cambiamento del nome del Paese, fino allora Siam – สยาม, in Thailandia o ประเทศไทย – Prathet Thai, letteralmente “Paese degli uomini liberi”, significativo in un’era caratterizzata dal colonialismo. Contrassegnò il suo mandato politico attorno ad un etnocentrismo di forte stampo anticinese. I cinesi erano visti come i rappresentanti di un potere alieno, parassitario e responsabile dell’arretratezza economica del Paese.
Phibul Songkhram commissionò al citato scultore italiano, Corrado Feroci, la realizzazione delle opere più importanti.
Analogamente a quanto accadde in Turchia, Phibul cercò di riformare la lingua epurandola da influenze straniere. A tal proposito, ricordiamo che la grafia dell’etnonimo o del glottonimo “tai”, priva dell’acca è errata, in quanto si riferisce alla più vasta famiglia tai-kadai o daica, comprendente la lingua laotiana, lo shan di Birmania ed altre favelle del Sud-est asiatico e delle province cinesi di Yunnan, Guangxi, Guizhou e Hunan, piuttosto che alla lingua nazionale dell’attuale Regno Chakri.
L’intellettuale nazionalista Luang Wichit Wathakarn, da parte sua, si caratterizzò per i contatti con l’élite culturale giapponese, pubblicando articoli sul Bushido ed intraprendendo rapporti con il professor Inazo Nitobe, autore della versione originale. Wichit preconizzava una società thailandese, buddhista, pura, incontaminata, scevra da elementi alloctoni ed ispirata ai fasti della classicità nazionale.
Qualche anno prima, sulla falsariga di uno spirito völkisch tedesco di matrice romantico nazionalista allora in auge, a Bangkok nel 1923, venne pubblicato il libro di un etnologo presbiteriano, Dodd William Clifton, dal titolo suggestivo: “The Tai race, elder brother of the Chinese”(La razza Tai, sorella maggiore della cinese), intriso di forti sentimenti anticinesi ed il cui intento era quello di sviscerare le origini, avvolte nel mistero, dei thailandesi. Visto il successo, nel 1934, gliene succedette uno omologo – questa volta più autoctono – di Chamrat Sarawisut, intitolato หนังสือเรื่องชาตไทย-Nangsuu ruang chat thai (Libro sulla Nazione thailandese).
Secondo la tesi di Dodd William Clifton – peraltro avallata da vari storici e studiosi thailandesi, fra cui il principe Damrong Rajanubhab (1862 – 1943), noto storiografo – gli antenati di questa nazione, gli Ai Lao, menzionati nelle antiche cronache cinesi, definiti proto-tailandesi, erano originari dalle pendici meridionali dei monti Altai, nel Sud-Ovest dell’attuale Mongolia. Spostatisi verso il Sud della Cina, fondarono il regno di Nan-chao, corrispondente alle summenzionate province cinesi.
Considerando queste premesse, appare evidente che l’architettura razionalista italiana ebbe una funzione ispiratrice in riferimento alla concretizzazione urbanistica di tutti questi impulsi.
Verosimilmente, la rivisitazione della tradizione attraverso forme aderenti alla razionalità e alla modernità di cui essa fu latrice, evocarono agli intellettuali del tempo un sentimento anticolonialista.
Non a caso Ratchadamnoen Avenue è un’arteria che collega l’area di Wat Phra Kheo e del Palazzo reale al Monumento alla Democrazia realizzato da Feroci. Come dire: un mandala urbanistico di questo processo.
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Polaris di gennaio 2011 ed è disponibile anche in formato pdf per gentile concessione dell’autore Ermanno Visintainer. Pubblicato il 28 Feb, 2011